Mauro Bubbico. Design! Design! Design: felice, utile e partecipato

Un mestiere inclusivo che mette al centro le persone e la società

Intervista a Mauro Bubbico che a Printered ha parlato di graphic design e dell’impatto che ha sulla vita di tutti i giorni, di formazione e soprattutto di radici.

Mauro Bubbico è nato a Montescaglioso (Matera) dove vive e lavora dal 1986 come grafico professionista. Tra i campi d’intervento privilegia il design finalizzato all’educazione sociale e alla sostenibilità ambientale. Nel corso degli anni i suoi interessi, le ricerche sui luoghi e i loro abitanti lo hanno portato alla definizione di un linguaggio grafico efficace e contemporaneo adatto a raccontarli e a valorizzarli per favorire lo sviluppo umano, economico e culturale, convinto che la cultura grafica è, prima di tutto, capacità di costruire grandi narrazioni. È docente di Progettazione Grafica all’Isia di Urbino e all’Abadir di Catania.
È socio Aiap (Associazione italiana design della comunicazione visiva) e membro AGI (Alliance Graphique Internationale). Da luglio 2018 è responsabile della comunicazione visiva della Fondazione Matera Basilicata 2019 per Matera Capitale Europea della Cultura.

Definisci in tre concetti che cos’è il graphic design?

Beh innanzitutto il mestiere più bello del mondo!

Voglio parlare in generale di design come attitudine, è un modo di guardare e di leggere la realtà, di intervenire con il progetto, di intendere la vita. Per AG Fronzoni occorreva progettare per non farsi progettare, quasi una scelta politica. Per Paul Rand il “design è tutto e tutto è design” è impossibile esimersi.

L’arte è la ricerca di sé senza un fine prestabilito, mentre il design risponde sempre ad una domanda, ad una esigenza, ad un bisogno che non può essere colmato. Per progettare bisogna essere in due, senza la figura del committente è impossibile procedere ed è proprio questa la differenza con l’arte. Inoltre i modi di fare design sono tanti, grafico, ambientale, della comunicazione, di ricerca, non esiste una sola forma di design, non esistono solo le due grandi categorie, prodotto e comunicazione.

Considero il design un atto per il miglioramento delle condizioni sociali, culturali e politiche del nostro presente.

Che impatto ha il graphic design (anche indiretto o inconscio) nella vita di tutti i giorni?

Diverse sono state nel corso degli anni le dichiarazioni di intenti pubblicate da grafici, nella Carta del progetto grafico degli anni ’90 si dice che la grafica è dappertutto ma spesso non ce ne rendiamo conto. Significativo è questo aneddoto su Achille Castiglioni che in un viaggio in Giappone, arriva in hotel, accende una lampada e scopre che sta usando un interruttore utile e bello, più tardi si renderà conto che l’interruttore l’ha disegnato lui. Il design va fatto e va dimenticato ed è in quel momento che diventa veramente utile. Con la perdita dell’autorialità, della firma, l’oggetto smette di essere di élite ed entra nella sfera del design anonimo e cioè alla portata di tutti.

Nella stampa non c’è molta coscienza di questo concetto anche perché le nuove tecnologie hanno creato una discrepanza tra ciò che si fa nel modo giusto e ciò che si fa senza un vero progetto.

Prendiamo ad esempio il settore della stampa online dove si fa ricerca e si innova continuamente. Questo è un aspetto assolutamente positivo, una sorta di democrazia diffusa, le piccole tirature e la “bassa spesa” facilitano l’accesso e marcano le differenze spingendo il mercato più evoluto ad evolversi ancora di più.

Il compito del progettista è aggiungere valore alle cose, non è una questione di strumenti ma sempre di contenuti.

Che ruolo ha la creatività nel graphic design e come può essere utilizzata a servizio del messaggio che si deve comunicare?

Il design non è una questione di creatività ma di conoscenza, più cose si sanno e più concetti si potranno esprimere, niente viene dal nulla, è la conoscenza profonda di ciò che si deve rappresentare che fa scattare l’idea, il resto è routine, capacità tecnica e registica che ti permette di raggiungere la giusta soluzione.

Quali sono le regole chiave per insegnare comunicazione visiva oppure cosa diresti a un giovane che vuole diventare graphic designer?

Quando ero studente ero attratto dall’arte, poi ho studiato scenografia, perché mi ero reso conto che l’arte è più difficile, anacronistica. Ho scelto la strada del graphic design perché mi permette di produrre artefatti che provengono dall’arte, ma di farli quotidianamente e di poterli verificare subito nel concreto. Ad esempio un prodotto editoriale viene consumato nell’arco di poco tempo, quindi non ti dà molta responsabilità, si può anche sbagliare e quindi sperimentare. Ogni volta si può cambiare tema, stare a contatto con il proprio tempo ed esprimerlo.

Il bello della grafica è anche questo, è un mestiere inclusivo che mette al centro le persone e la società, ti mette a contatto con gli artigiani, insegna a ragionare sulle cose, a tradurle per affinare un linguaggio, ad affinare le tecniche per realizzarle.

Che rapporto c’è in generale e nel tuo lavoro tra territorio e cultura d’appartenenza e cultura grafica?

I riferimenti culturali sono importanti, il rapporto con una particolare area geografica, regione o città conta molto e fa la differenza. La metodologia progettuale è una, ma affinché sia efficace va riadattata di volta in volta rispetto al contesto in cui si va a operare.

Il lavoro è regolato anche dal mercato di riferimento, il mio lavoro è più legato all’industria culturale (musei, enti istituzionali, associazioni) e delle piccole imprese. Questa realtà ha sviluppato l’interesse per un design emozionale che trova ispirazione nella cultura materiale espressione di una classe subalterna e povera ma ricca di senso.

Il Sud come lo descrive Lidia Decandia, è un luogo di forti contrasti dove si mescola «umano e non umano, maschile e femminile, fattezze di rara bellezza e di terrificante bruttezza. Il loro essere mutevole e cangiante racchiude un’identità in perenne mutazione. Come la stessa cultura profonda del Sud ci insegna, infatti, non è mai riducendo all’ordine l’instabile irriducibilità dei contrasti, ma è riconciliandoci con la non pacificità, che possiamo trasformare in bellezza il dramma della contraddizione». Questo, con il mio lavoro, ho tentato di fare.